Cultura

MORTE DI UNA REGINA

      Appena, appreso della morte della regina Elisabetta II, ho frenato l’impeto che mi induceva a scrivere sull’evento; quindi, ho preferito attendere che le “emozioni collettive” decantassero per esprimere la mia personalissima opinione su questa tanto osannata persona e per quello che lei e i suoi familiari hanno preteso e pretendono simbolicamente incarnare.

       Le immagini televisive del suo funerale e quelle della sua incoronazione esprimono esageratamente una grandiosità il cui cardine poggia su basi discutibili, se, per basi, vogliamo intendere la cultura, i comportamenti, nonché, cosa non trascurabile per il prestigio, una conclamata longevità dinastica.

      Tanto per fare un esempio su questo specifico particolare, i nostri deprecabili Savoia, seppur con qualche deviazione parentale, a partire da Umberto Biancamano considerato il loro capostipite (980-1057 ca), hanno avuto una documentata dinastica continuità.

       Mentre, sul territorio insulare che oggi definiamo Inghilterra, si sono succedute diverse dinastie, le quali con date molto incerte, principiano sul finire dell’ottocento (889?) con la dinastia Wessex (Egberto del WessexAlfredo il Grande e Atelstano) quest’ultimo gli storici ritengono che sia stato il primo re, per continuare con i re Danesi e Anglosassoni, poi con i Normanni (1066-1135), i Blois (1135-1154) e ancora i Plantageneti-Angioini – per la cronaca a questa dinastia apparteneva Edoardo I, tanto per capirci quello del film Breveheart – si prosegue con i Plantageneti-Lancaster (1399-1461) e i Plantageneti-York fino al 1470. Nel 1485 fino al 1603 si insedia la dinastia dei Tudor che vede due sovrani passati alla storia: Enrico VIII, quello dello scisma dalla Chiesa cattolica e la regina, questa sì una grande monarca, Elisabetta.

       Ai Tudor succedono gli Stuart che regnano fino al 1714 con la regina Anna, che, priva di eredi, indusse il parlamento ad affidare la corona ad un tedesco Giorgio I, figlio di Ernesto Augusto I di Hannover e di Sofia del Palatinato cugina dell’ex sovrana.

       In questo modo gli Hannover,  casata tedesca, (Giorgio I che regna dal 1714 al 1727, Giorgio II 1727–1760, Giorgio III 1760–1820, Giorgio IV 1820–1830, Guglielmo IV 1830–1837, fino a Vittoria 1837–1901)  diventano casa regnante in Gran Bretagna fino al 1901.

       Vittoria si sposò con suo cugino, il principe Alberto di Sassonia-Coburgo-Gotha e al trono le succedette il figlio Edoardo VII aprendo così gli inizi ad una nuova dinastia, ma pur sempre di sangue tedesco. A quest’ultimo nel 1910 succede Giorgio V che,  per i forti sentimenti antitedeschi della popolazione britannica, il 17 luglio 1917, in piena prima guerra mondiale, emise un editto reale con il quale cambiò il nome della casa regnante da Sassonia-Coburgo-Gotha in Windsor.

       Diremmo grande furbizia.

        A Giorgio V succede Edoardo VIII quello che abdicherà a favore del fratello Alberto che salirà al trono con il nome di Giorgio VI, nonché padre della defunta regina. Elisabetta II, fedele alla tradizionale perfidia, pose fine alla confusione sul nome dinastico, quando dichiarò al Consiglio della Corona: “la volontà e gradimento che io e i miei figli dobbiamo essere designati e conosciuti come casa e famiglia Windsor, e che i miei discendenti che si sposano, e i loro discendenti, debbano portare il nome Windsor”.  Risparmiamo per ragioni di spazio le “capriole” che ci sono volute per rendere britannico il marito di Elisabetta II che essendo nato a Corfù era greco per nascita, peraltro, di religione ortodossa. Ma torniamo ad Elisabetta II ed a quello che si presume abbia rappresentato; ebbene, un’analisi che vuole essere attenta ed oggettiva non può prescindere da una considerazione ovvia: un monarca per essere la prima carica di uno Stato o di un Regno, non può consentirsi scivoloni sul piano etico, altrimenti rischia di far saltare tutto il sistema come accadde con Oliver Cromwell, che detronizzò Carlo I insediando una forma di Stato di ispirazione repubblicana.

      Anche in questo caso, con il fallimento del tentativo di dare una forma repubblicana allo Stato; il ritorno della monarchia, concepì che, seppur morto per malaria, la salma di Cromwell doveva essere riesumata dall’abbazia di Westminster e sottoposta al rituale dell’esecuzione postuma.

      Ora, sotto il profilo che abbiamo scelto per esprimere un giudizio su questa regina, possiamo citare la sorella Margaret, alla quale fu proibito di sposare un divorziato e forse, per questa patita spietatezza, la sua vita fu segnata da alcolismo, droga fino a ridursi su una sedia a rotelle e morire, seppur più giovane della sorella nel 2002. Che dire poi della storia del piccolo Charlie Gard, al quale il sistema giuridico inglese con l’assenso della Corte di giustizia europea ha negato ai genitori del bimbo l’espatrio. Forse, la regina, pur sapendo che per la malattia rara di quella creatura non c’erano e non ci sono cure, un suo gesto per rompere quel crudele diniego avrebbe potuto farlo. Ed invece? Disinteresse totale!

      Che dire poi del comportamento avuto ai funerali della principessa Diana? In quell’occasione, avendo intuito che il proprio prestigio era irrimediabilmente precipitato,   Elisabetta II esibisce quell’inchino mentre sotto i suoi occhi passava il feretro della principessa Diana.

       Con l’ascesa al trono di Carlo l’inno nazionale cambia e prevede che GOD SAVE KING, ovvero Dio salvi il re. Credo che ci siano fondate ragioni che Dio non voglia perdere tempo con questo particolare soggetto che per morte della madre e per prassi costituzionale si è autoproclamato re. Relativamente a questo luttuoso evento, verso il quale gran parte del mondo ne ha seguito la cronaca, chiudo questa mia riflessione con i versi 121-123 del XIX canto del Paradiso di Dante, dove l’aquila nell’elencare i regnanti che errano nello svolgimento delle funzioni di cui sono investiti, ci fa trovare queste parole a proposito del re protagonista di Breavehart: “Lì si vedrà la superbia ch’asseta, / che fa lo Scotto e l’Inghilese folle, / sì che non può soffrir dentro a sua meta”. Ed infine, a proposito dell’imponente funerale – in assenza di cifre ufficiali, si parla di svariati miliardi di sterline – per un commento e per rispondere al quesito del titolo di questo articolo, ci facciamo aiutare da una commedia scritta da Michelangelo Florio, titolata così: TANTO RUMORE PER NULLA o se ne preferite la traduzione in inglese: Much Ado About Nothing, opera dell’alias di  Michelangelo Florio ovvero  William Shakespeare.

Domenico Pavone

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