Cultura

LE MEZZE MANICHE

Prima media,

anni 10,

ero di gennaio,

come lo sono ancora.

 

Mamma aveva deciso che potevo andare a scuola un “anno prima”…

 

e quell’anno “prima”,  me lo sono riportato per la maggior parte della vita.

Forse per questo ero così introversa,

muta, nuda e cruda.

Mi sono sentita sempre un pesce fuori dall’acqua,

quell’anno di differenza lo vedevo,

lo vedevo ogni fottutissimo giorno.

 

Per non parlare alle superiori.

 

Tutte più o meno avevano sviluppato.

Il mio anno in meno si aggiungeva  ad una mia immaturità adolescenziale …

alta, secca e allampanata

e un po’ carina,

ma io quello proprio non lo vedevo.

 

I miei amici mi chiamavano “Lisa”.

Non era un diminutivo del mio nome,

niente affatto,

“Lisa “ stava per consumata,

piatta,

liscia.

 

E Lisa si perdeva nelle forme arrotondate  delle compagne,

ascoltava i discorsi su cicli mestruali , dolori , mal di testa … pregando perché ciò accadesse anche a lei.

Per poter dire  un giorno, con aria uniformata,

 “ho le mie cose”.

 

Lisa deve aver pregato tanto,

perché dopo qualche anno non è più esistita.

 

Ma ritorniamo ai miei dieci anni.

 

Ad un primo pomeriggio di primavera inoltrata,

quando le mezze stagioni erano una certezza.

 

Faceva caldo,

molto caldo per essere primavera,

sembrava più inizio estate.

 

Forse le mezze stagioni sono state inventate proprio per questo,  per lamentarci.

 

Chiedo scusa,

mi perdo nei discorsi e faccio perdere anche voi.

Ma perdersi e trovarsi sono i fondamenti di una vita piena e vissuta …

e non ho nessuna intenzione di divagare il mio vagare.

 

Perdersi e trovarsi,

mentre la mente corre.

 

Perdersi e trovarsi

nello scrivere tutto,

le sensazioni,

i pensieri,

che si formano e si trasformano

ed è tutto così difficile

e insieme così naturale.

 

Comunque,

rimaneva un pomeriggio

e io avevo sempre 10 anni.

 

Era un tempo lontano,

una vita fa,

quando i supermercati erano rari…

e il fornaio conosceva le abitudini alimentari di gran parte degli abitanti  del quartiere.

 

La pizza bianca era solo una,

e così la pizza rossa.

 

50 lire di pizza era una scorpacciata,

oleosa, morbida e…calda,

difficilmente arrivava puntuale alla ricreazione…

ne avrei mangiata ancora e ancora,

mai sazia,

come la mia curiosità.

 

Comunque era sempre pomeriggio e faceva caldo,

il marciapiede era deserto e così tutta la via.

Erano le prime ore subito dopo mezzogiorno, quando il pranzare tutti insieme era sacro.

 

Quando tutto era fresco in tavola, ma non certo per via dei congelatori.

 

Non esistevano o noi non l’avevamo.

 

I negozi erano chiusi nelle ore del silenzio del riposo di chi poteva.

 

E io avevo sempre 10 anni

andavo a fare i compiti

a casa di una mia amichetta.

 

Mia madre mi aspettava lì,

era andata prima.

 

Erano amiche, le due mamme.

Erano lì insieme,

a cucire qualcosa di bellissimo,

a creare da una pezza di stoffa

qualcosa di unico…

probabilmente per me e mia sorella.

 

L’avrei raggiunta.

Avevo solo 10 anni e qualche mese in più…

 

E sognavo…

un mondo che ancora oggi non riesco ad abbandonare.

 

E mentre la realtà eri lì, remota ,

io percorrevo  tranquilla il breve  tratto di via, come spesso accadeva,

in una strada larga,

in discesa

e solitaria…

 

Camminavo persa nei sogni futuristici,

di idee anticipate,

di racconti da ricordare.

 

Avevo 10 anni qualche mese e qualche giorno e

tutto era così diverso.

 

il telefono aveva una rotella a disco,

fatto apposta per sbagliare numero.

Da tempo non veniva più murato ed era distinguibile dall’austero predecessore, obbligatoriamente nero.

 

Ma in comune avevano le stesse regole perché squillava solo nelle ore appropriate.

 

Era proibito ricevere o telefonare dall’ora di cena in poi.

Per non parlare delle prime ore del pomeriggio.

Per non parlare dello squillo che in quel momento inopportuno poteva solo significare una disgrazia o semplicemente un coro di “ chi è adesso ? “

 

Per non parlare del duplex e dei vicini.

Erano un tutt’uno.

Se avevi un’urgenza eri finita…

 

O ti attaccavi con gentilezza apparente al campanello dell’inquilino accanto,

o potevi pur morire…

dovevi scegliere.

 

Tornando a mia madre,

lei era casalinga,

come lo erano la maggior parte delle mamme.

 

E quelle che non lo erano, facevano il doppio del lavoro  .

L’emancipazione non esisteva nemmeno nella parola …

poi nei fatti…

parliamone.

 

Camminavo quel pomeriggio,

sicura solo dei miei anni,

probabilmente contando i passi,

cercando di evitare la linea divisoria del travertino del marciapiede.

 

Oppure in equilibrio sui bordi delle aiuole…

o semplicemente persa nel canto delle cicale…

in attesa dell’ombra della notte e dello “zirlìo  dei grilli”.

 

Fatto sta che faceva caldo.

 

Vestita leggera.

Una maglietta “a mezze maniche” perché così si chiamava.

 

Non certo “ T-shirt”, quella è venuta dopo, quando non ero più “Lisa” e pronunciare T-shirt mi faceva sentire  “figa”.

Certo una principiante confrontata ai  giorni nostri.

 

Comunque indossavo una

gonna di cotone rossa,

con piccoli disegni che non ricordo,

senz’altro ereditata da mia sorella.

 

Quest’ultima cosa non mi è mai andata giù,

combattevo la disgrazia,

pregando  in un sorpasso nella crescita

e nell’inversione dei ruoli.

Devo aver pregato tanto, anche per questo,

Perché così è accaduto.

 

E ritorniamo ai miei dieci anni.

 

Senz’altro avrò indossato calzini bianchi.

Così pure quei sandali che hanno segnato la mia generazione, unisex , con tanto di occhiolini e cinturino alla caviglia.

Sempre avuti blu, ma la domenica erano bianchi…

stupendi se nuovi,

un po’ meno nei mesi seguenti.

 

I miei primi dipinti sono nati col bianchetto,

una crema gessosa,

in un barattolo di vetro ed un coperchio con spugnetta incorporata,

così piccola che le dita diventavano anch’esse bianche

e per sbrigarmi dipingevo anche i buchi.

 

E la  sera i miei piedi nudi si ritrovavano ad essere i perfetti negativi dei sandali scarrozzati.

 

Ma tutto ciò era una splendida routine mischiata al desiderio di crescere.

 

Quindi quel giorno era uno come tanti altri.

 

E io ero tranquilla come una che aveva solo 10 anni,

qualche mese,

qualche giorno …

e qualche ora in più .

 

Da quel silenzio ripetuto a ogni passo,

si aggiungeva la vista da lontano

di un gruppetto di ragazzini.

 

Decisamente indistinti.

Quanti?

non ricordo ora.

Tra un minuto lo ricorderò.

 

Avevo con me, i libri e i quaderni per i compiti…

avevo dimenticato l’elastico rosa che li teneva ben stretti e uniti

e io stavo attenta sia a sognare che a non farli cadere.

 

Comunque camminavo,

in questa strada in discesa di un breve percorso.

 

Ma era il mio percorso

 

Il mio pezzo di strada

Il mio pezzo familiare

Il mio  pezzo di adolescenza

Il mio pezzo di ricordo

 

Mentre i ragazzini si avvicinavano,

io non prestavo loro più di tanta attenzione,

avevo meglio da fare,

continuavo la mia via

così come mi era stato insegnato.

 

E mentre la distanza tra me e loro si dimezzava,

diventavano via via più numerabili,

avranno avuto  tre o forse quattro anni più di me.

 

Erano ragazzini anche loro,

come me,

un bel gruppetto,

5 o 6,

mi  sembra di ricordare.

 

Perché dico mi sembra?

 

Ricordo benissimo tutto,

attimo dopo attimo,

tutto velocemente certo,

ma allo stesso tempo rallentato,

se non bloccato..

visto e rivisto

e forse mai digerito.

 

in un minuto,

erano lì,

accanto a me.

 

In un secondo,

li avevo intorno,

circondata,

io in mezzo.

 

In un istante

il sogno si è trasformato

mentre i libri volavano via,

sparpagliati e aperti intorno a me.

 

Cosa volevano ?

 

Perchè quelle facce ?

 

Visi divertiti e

Sfacciati

 

Qualcuno mi porgeva un libro caduto, ma non per gentilezza o per una sorta di pentimento.

 

le mie mani rispondevano lasciando per un attimo la difesa,

per recuperare ciò che era mio…

 

Illusa…

 

Gli altri veloci,

dietro di me,

allungavano le loro,

di mani.

 

Alzavano veloci la gonna rossa  con i disegni che non ricordo più.

La gonna rossa di mia sorella.

 

Mani che toccavano,

palpavano,

mani timide divenute forti dal branco.

 

Sorrisi ferrati

da ghigni sfrontati.

 

Mi giravo

di scatto

per difendermi ma era inutile…

troppi per una ragazzina sola.

 

E il gioco continuava.

Perché per loro era un gioco.

 

Tante volte.

Quanto le mie lacrime che non uscivano.

 

La  mia paura non li ha fermati,

credo, al contrario , che li abbia resi più forti e

più risoluti.

 

Cuccioli di infami

Ignari di cosa stavano facendo

Educati tali

Normali per ruolo

Anormali per sempre

 

Ricordo il mio correre

Ricordo la paura

Ricordo quelle mani volgari

 

Ricordo la violenza dei gesti e degli sguardi

 

Ricordo la strafottenza

Il potere del gruppo

Delle pecore non pensanti

Dei pensieri non avuti

Del vuoto,

dell’immenso vuoto dei loro cervelli

 

E non rompetemi le palle se parlo

di qualche decennio fa…

Non digerisci mai…

mai…

e se diventi madre…

il ricordo è lì che ammonisce te e tua figlia.

 

Potrei continuare per ore.

 

Di come era normale sentirsi

pigiare… appoggiare, strusciare sull’autobus.

 

Delle informazioni cortesi chieste da uomini eleganti.

Chiusi in macchina.

Che ti mostravano il membro eretto mentre ignara spiegavi loro il percorso da fare.

 

l’elenco è lungo.

Sì che è lungo,

 

E mi devo considerare fortunata

 

Sì, sono stata fortunata

 

Ma questa parola non dovrebbe esistere

 

Fortuna o rispetto

Fortuna o diritto

Fortuna o libertà

 

Perché non saprai mai chi sarà il prossimo.

L’uomo cattivo è quello che ti sorride, quello che ti sta accanto.

 

Ma anche il fratello,

Il fidanzato o il marito

Complici di frasi “e tu perché eri lì?

Perché ti sei fermata?

Perché a quell’ora?

Vedi, a essere bella?

 

Cazzo, la colpa è mia e quasi quasi ti convincono.

 

E poi impari.

Se vuoi sopravvivere.

 

Una vita passata vigile a guardarti intorno…

come un Marines in un uno scontro a fuoco,

 

Libero…

puoi uscire dalla macchina

 

Libero

non c’è nessun in garage

 

libero

puoi entrare nel portone del palazzo

 

Libero

l’ascensore è vuoto

 

Libero

il pianerottolo è deserto..

 

È ormai un automatismo…

viene di default…

 

….come la triste convinzione di essere stata favorita dalla sorte….

 

più di altre.

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