Cultura

DOVE CI PORTANO LE STELLE

Il giorno della memoria.

In occasione della ricorrenza del 27 gennaio desideravo dare il mio contributo con un racconto edito.

 Il mio desiderio non vuole essere né insegnamento né propaganda, ma solo l’espressione di un insolito punto di vista sul tema della Shoah. Tengo a precisare che la storia è inventata ma nessuno di noi può avere la certezza che non sia veramente accaduta.

Abbiamo fedi religiose, credenze, abitudini differenti ma il giorno della memoria è fondamentale per tutti: per conoscere, ricordare e combattere ancora quei gesti insulsi che ci troviamo a rivivere ogni volta che non vengono rispettati i diritti e la vita degli altri. I diversi da noi.

Gli immigrati. I poveri. I gay e tutte quelle minoranze che ci circondano. E’ un dovere ricordare le sofferenze atroci della popolazione ebrea, per evitare che l’orrore possa ripetersi.

Shoah in ebraico vuol dire “tempesta devastante” (dalla Bibbia, per es. Isaia 47, 11), e milioni di morti sono stati l’espressione più crudele per rendere veritiera questa descrizione.

Questo piccolo racconto è il mio umile modo per partecipare, prendetelo così, senza velleità.

 

Dove ci portano le stelle.

“… Seconda stella a destra questo è il cammino,

e poi dritto fino al mattino poi la strada la trovi da te,

porta all’Isola che non c’è…”

La musica riecheggia nella stanza mentre Martina, mia nipote, mi sta facendo vedere come dovrà essere il suo costume di carnevale. Ha quindici anni ed è un tesoro. Il volume della musica è un po’ troppo alto per i miei gusti e provo a chiederle di abbassare ma, ovviamente, non mi sente presa com’è a riguardarsi l’abito, per ora solo imbastito con del filo grosso.

Si sposta di lato, poi si alza sulle punte e si rimira riflessa nello specchio, quello lungo a  parete. È felice e spensierata, con lo sguardo già proiettato alla festa.Di colpo mi viene in mente un’immagine che credevo di aver seppellito, come quasi tutti i ricordi di quel tempo, invece eccomi lì, sei anni circa e, come Martina, mi guardavo allo specchio e mi giravo e rigiravo lì davanti. Ingenua e contenta.

Avevo preso dei ritagli di stoffa sotto il tavolo da lavoro di mia madre, erano mesi che giocavo con quelli. I pezzetti più piccoli li potevo cucire su quelli più grandi, ero brava a cucire, a volte aiutavo la mamma, e così creavo faccine, mani abbozzate e capelli e poi triangoli per fare i tetti delle case e piccoli vestiti senza sagoma per la mia unica bambola di pezza. Mia madre era sarta e cuciva per i nostri vicini, anche per i vicini dei nostri vicini, e quasi nessuno pagava mai però lei continuava a cucire. Anche al buio. Anche di notte, vicino alla finestra alla luce della luna. Io facevo finta di dormire e guardavo le stelle da quel rettangolo aperto sul mondo. Erano lucide e brillanti ed era quasi come se mi invitassero a seguirle e a sognare.

Le signore del quartiere venivano la mattina a portare i vestiti da riparare e, subito, nel pomeriggio venivano a riprenderli, solo qualcuna di loro portava in cambio da mangiare; e mamma cuciva. Cuciva sempre. Con i capelli legati, le mani con i calli alle dita e sempre un sorriso, anche stanco, per me. Avevo imparato a cucire guardando lei e mi divertivo con poco, quelle piccole pezze colorate mi bastavano.

Erano giorni che mamma cuciva cose identiche per tutti, uguali anche nel colore quasi fossero degli stampi, e nella mia mente di bambina pensavo ci fosse una qualche festa, con travestimenti in maschera tanto erano tutte uguali quelle pezze che mamma stava applicando e avevo pensato, quasi sperato, che volesse farmi una sorpresa. Con questa convinzione cercai di non far trapelare di aver capito il suo intento e giravo e volteggiavo per casa tutta contenta.

Le signore andavano e venivano e mamma continuava a cucire.

Decisi di farle una sorpresa anche io e farle vedere quanto fossi diventata brava e dopo averla osservata per un po’ decisi di cucire la stessa cosa anche per me, solo un po’ più grande così sarei stata la protagonista della festa. Così, mentre mamma era in cucina, presi un bel pezzo di stoffa gialla dal suo cestino da lavoro, mi misi sotto al tavolo come sempre e cominciai a copiare la forma che le avevo visto fare tante volte cercando di ritagliarne una più grande; poi presi il mio cappotto bianco e con del filo grosso cominciai a cucire la stella gialla. Bellissima.

Ricordo ancora lo sguardo incredulo di mia madre quando mi vide lì davanti lo specchio a ridere contenta della mia grande stella gialla cucita sul cappotto. Non compresi le sue lacrime, non capii la sua angoscia quando strappò come una furia la stella che rimase attaccata al cappotto per un solo lembo mentre io urlavo la mia rabbia chiedendomi il motivo di quel gesto violento.

Sull’attaccapanni all’ingresso sia il cappotto di mio padre che quello di mia madre avevano le stelle gialle, la mia invece era tutta da rifare. Non ero come loro? Non dovevo avere la mia stella?

Mia madre tornò da me, si inginocchiò e mi prese le mani, ricordo ancora i suoi occhi gonfi di pianto. – Sarah – mi disse – queste stelle gialle sono solo per i grandi… Ma io insistevo e battevo i piedi. – Tu – continuò con voce calma – non puoi ancora averla, devi aspettare. Quando avrai sei anni ne cucirò una anche a te.

La abbracciai felice, avrò una stella gialla anche io pensai, ma solo dopo qualche tempo capii l’angoscia di mia madre. In cuor suo aveva sperato di non dovermela mai cucire, che finisse tutto prima, invece, non solo mi cucì la stella ma fummo anche deportati nel ghetto. La nostra casa fu distrutta e ci rimase solo quel marchio sul cappotto, quel segno distintivo che tanto avevo desiderato senza capirne il significato.

Alla fine della guerra mi salvai solo io e credevo di aver sepolto il ricordo di quelle stelle gialle con tutto il resto. Una lacrima mi scende sul viso e mi sveglio dal torpore momentaneo.

– Nonna, nonna, stai bene? La preoccupazione e la paura negli occhi di Martina mi fanno sentire viva, le rispondo di essermi punta con l’ago e le dico che è bella, che quel vestito le sta bene e che sarà la principessa della festa. Lei si.

La gioia dei suoi quindici anni spensierati è quasi troppa per me, non voglio piangere, vorrei ridere apertamente come fa lei mentre le accarezzo una guancia invece le sorrido, come faceva mia madre mentre cuciva. Martina alza ancora il volume dello stereo.

“… Niente odio e violenza,

né soldati, né armi,

forse è proprio l’Isola che non c’è…” (E.Bennato, l’Isola che non c’è)

 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Pulsante per tornare all'inizio