Sociologia

Quanta felicità! Ma quale felicità?

Più ci si addentra nel XXI secolo più si ha la sensazione che la felicità non sia più solo una questione inerente all’antico filosofeggiare, bensì alla vita quotidiana. Basta osservare la nostra società, la nostra cultura, i nostri mezzi di informazione, e un numero sempre più importante di ricerche sui livelli di felicità percepiti si riversa su di noi. Non viene risparmiato nessun ambito:ormai ad occuparsi di felicità non sono più filosofi e politici ma anche economisti, pubblicitari, e innumerevoli esperti del settore “risorse umane” delle aziende. Osservando la notorietà e le innumerevoli statistiche soprattutto in ambito politico (un esempio tra tutti il rapporto Stiglitz-Sen-Fitoussi commissionato dal presidente della Repubblica Francese Nicolas Sarkozy, dove ventidue esperti, tra i quali cinque premi Nobel per l’economia, hanno riflettuto sui “limiti della contabilità nazionale”, vale a dire su come calcolare la ricchezza di un Paese tenendo conto anche di parametri soggettivi quali tempo libero, relazioni sociali e sensazione di sicurezza), si evince il risultato: il benessere collettivo non è necessariamente un benessere di tipo materiale ma, secondo gli economisti, andrebbero presi in considerazione altri parametri quali il tempo libero, le relazioni sociali e la sensazione di sicurezza[1].

Sorprendenti sono anche i risultati di una recente ricerca che dimostra come i profitti d’azienda migliorino,  i contenziosi di lavori diminuiscano e le assenze per malattia siano in calo se il grado di felicità personale dei dipendenti superi una certa soglia[2]. Per questo potrebbe entrare presto tra le voci del curriculum accanto a studi, esperienze e interessi la fatidica domanda “Sei felice?” visto e considerato che “i dipendenti felici producono reddito, aumentano la competitività e fanno bene ai profitti d’impresa”[3]. Cosa non combina l’etica capitalista, avrebbe affermato Weber…

Già dall’antichità si tentava di carpire quale fosse il segreto per vivere una vita felice, ed a interrogarsi su questo, erano per la maggiore i filosofi. Famosa è la “Lettera sulla felicità a Meneceo” nella quale Epicuro svela al giovane la “ricetta” per la felicità: seguire e soddisfare i propri bisogni naturali e necessari quali mangiare, dormire, vestirsi, avere cura di sé e delle proprie amicizie[4]. L’eudemonia, secondo Epicuro, ossia il soddisfare i propri bisogni naturali, eliminando qualsiasi paura che derivi dalla mortalità dell’essere umano, raggiungendo così la totale atarassia e aponia del nostro corpo e del nostro essere, è il termine che indica il senso di felicità come scopo ultimo della vita e dell’esistenza umana.  Il pensiero di Epicuro, elogiato poi da Seneca, continua ad esortare l’uomo che voglia essere felice a “vivere secondo natura”, e a tralasciare quei piaceri precari e fugaci che dovrebbero distoglierlo dalla tragica consapevolezza di essere mortale[5].

È bizzarro pensare come l’eudemonia epicureista si sia traslata nella nostra società. Il nostro “buon demone” oggi, leggendo le pagine di Zygmunt Bauman, pare si possa trovare nel negozio di abbigliamento Top Shop e sembra possa incarnarsi in un paio di shorts assolutamente cool, che probabilmente dopo l’acquisto verranno indossati una sola volta, per poi essere gettati nel dimenticatoio, insieme a chissà quanti altri “buoni demoni” del momento[6]. Lo spirito consumistico odierno ci permette di riflettere sulla dimensione della ricerca, o per meglio dire, della corsa verso la felicità. L’importanza di quanta felicità si possa calcolare non è un tratto nato nella nostra società: il primo pensatore a farne un dogma è stato il padre dell’utilitarismo Jeremy Bentham, il quale per primo ha spostato l’attenzione su quanta felicità potesse essere ambita e garantita del governo di uno stato per il suo popolo. Il felicif calculus incluso nella sua monumentale opera, Introduzione ai principi della morale e della legislazione, è una sorta di equazione della felicità che consente di calcolare i valori dei piaceri necessari a raggiungere uno stato di benessere. Così come il catalogo dei piaceri, introduzione all’opera, dove viene nuovamente posto l’accento sulla quantità piuttosto che sulla qualità e sulla soggettività riguardante ogni tipo di piacere.

L’importanza della quantità di tutto ciò che possediamo a dispetto della qualità era stato ampiamente criticato a Bentham da John Stuart Mill, filosofo inglese nato nel XVII secolo. Nella sua critica appaiono interessanti temi: il raggiungimento della felicità attraverso una salda Bildung (realizzazione di sé) attraverso l’emergere della propria natura e del proprio carattere autentico; la preoccupazione che l’aumento della felicità collettiva avesse potuto incentivare la crescita delle sofferenze personali; la scarsità nel mondo contemporaneo di una reale affermazione del proprio essere[7].

La teoria dell’utilitarismo ha avuto un successo così importante e viene riproposta ancora nella nostra cultura per un motivo ben preciso: la convinzione che la felicità si possa in qualche modo quantificare e calcolare è estremamente rassicurante e accomodante per gli uomini. Affidarsi ai numeri e alle equazioni ha un potere palliativo sull’ansia che sopraggiunge quando si pensa a cosa possa realmente rendere felici. In chiave odierna, oltre alla quantificazione costante, si è aggiunto il consumismo, che ci illude di poter toccare con mano un concetto che in realtà va ben oltre alla materialità delle cose. Ed ecco che la ricerca della felicità, “attività notoriamente impegnativa, faticosa, rischiosa e logorante per i nervi”[8] aumenta la probabilità di cadere in depressione mentale, aumentando a sua volta la spesa collettiva per antidepressivi e antiansiolitici. Conviene davvero per tutti essere felici? Sembra proprio di no… Anzi pare sia necessario attribuire la nostra felicità a piaceri effimeri e passeggeri, possibilmente pagando, o in contanti o con carta di credito.

Uno dei principali effetti del ricercare la felicità nell’acquisto di prodotti (dai quali ci si attende felicità) è di rendere più remota la possibilità che la ricerca di questa si concluda. Quella ricerca non può finire: il suo fermarsi equivarrebbe alla fine della felicità stessa. Nella pista che porta alla felicità il traguardo non c’è. Quelli che sono apparentemente i mezzi si trasformano in fini: di fronte all’elusività dello ‘stato di felicità’ sognato e bramato l’unica consolazione offerta è quella di rimanere in pista; la speranza della vittoria finale sopravvive finché si resta in gara […][9].

Si potrebbe usare il paradigma del feedback: si paga in denaro per ricevere in cambio un po’ di felicità. E tutto questo a nostro rischio e pericolo: sappiamo che quel piccolo pezzo di gioia non durerà a lungo, il tempo di essere sostituito con qualche altro prodotto in un’altra martellante pubblicità e tutto svanirà. Ma entrare nel circolo vizioso è facile ed è quasi imposto dal consumismo della nostra società: “spostando abilmente il sogno di felicità dalla prospettiva di una vita piena e pienamente gratificante alla ricerca dei mezzi ritenuti necessari per conquistarla, i mercati fanno in modo che la ricerca prosegua all’infinito”[10].

L’assunto che si punti più sulla quantità in termini di calcolo della felicità, che sulla qualità è una condizione riscontrabile anche nelle nostre relazioni interpersonali. Basta pensare al più famoso social network in circolazione: Facebook. Quante volte navigandovi abbiamo notato profili con un numero esiguo di amici e abbiamo pensato che sia stata una persona poco empatica e popolare? Anche nel network funziona così: più amici hai, più esisti, più sei degno di rispetto e di ammirazione. Non stupisce quindi la “liquidità” dei nostri rapporti amicali, delle nostre relazioni familiari e amorose. Liquidità che si affianca alla lotta frenetica contro l’incertezza del vivere. In un’epoca dove tutto si presume sia calcolabile e prevedibile cresce il disappunto e l’impotenza dell’uomo davanti all’imprevedibilità delle nostre relazioni, del nostro lavoro, del come trascorreremo la nostra esistenza e soprattutto se saremo mai felici. “La vita si vive nell’incertezza, per quanto ci si sforzi del contrario. Ogni decisione è condannata a essere arbitraria; nessuna sarà esente da rischi e assicurata contro insuccesso e rimpianti tardivi”[11].

Il concetto di incertezza è complementare a quello di felicità: non è possibile prevedere o sapere con certezza quando saremo felici e soprattutto per quale motivo, data l’estrema soggettività dell’ambito sentire. Ma la coercizione a cercare la felicità odierna (“almeno la felicità prospettata da consiglieri autodesignati e da consulenti a pagamento, nonché dai creativi della pubblicità”[12]) rende altamente suscettibili tutti coloro che la perseguitano e, come reazione uguale e contraria, la allontana da chi è “costretto” a inseguirla. Ovviamente il trovare la felicità in una bibita sembrerebbe così assurdo e naif se ci si rendesse conto che stappare la felicità non sia realmente possibile, ma il messaggio è così efficace (e soprattutto ripetuto fino all’esasperazione) che pare quasi possibile e auspicabile poter acquistare la gioia in un supermarket al costo di un paio di euro: in verità “la tragedia è talmente dissimulata da esser quasi scomparsa dalla percezione cosciente ed essersi disciolta nell’ambiance del tempo, nel clima Titanic della Angst che risuona nei festini, negli sballi, nella costrizione alla gioia”[13]. Ed ecco come magicamente l’uso di sostanze stupefacenti tra giovani e non, in particolare della cocaina, aumenta a dismisura nei Paesi occidentali: indice percettibile di un particolare senso di inadeguatezza che permea la nostra società, dove è sempre necessario essere vincenti, primi, sorridenti e più che mai felici. La coercizione alla felicità della quale parla Bauman è la vera piaga della nostra epoca seguita da conseguenze irrimediabili quali, maggiore fra tutte, la frustrazione personale. Dopo aver preso coscienza del senso di insoddisfazione che aleggia la nostra società, che tenta di darci della felicità take-away, dopo esserci resi conto che “Viviamo l’acume dell’onnimercificazione del mondo. L’economia non solo si è emancipata dalla politica e dalla morale, ma le ha letteralmente fagocitate. Occupa la totalità dello spazio. […] La razionalità trionfa dappertutto e il calcolo costi-benefici si insinua negli angoli più reconditi dell’immaginario, mentre i rapporti mercantili si impadroniscono della vita privata e dell’intimità”[14], come sosteneva in maniera così attuale Latouche nella sua opera “L’invenzione dell’economia”, credo sia più che doveroso affermare, senza alcun tipo di presunzione, che “la felicità non è qualcosa che possa essere perseguita e il perseguirla distrugge la felicità. Eppure è possibile essere felici nella vita”. Sarebbe un immenso passo avanti per la nostra serenità poter far nostro questo concetto e applicarlo alle nostre esistenze, senza doverci più preoccupare del nostro prossimo acquisto o della prossima statistica su quel miraggio chiamato felicità.



[1] Marzano M., Come cambia la felicità, La Repubblica, 03 Aprile 2010, p. 37.

[2] La fabbrica della felicità, L’Espresso, 11 Novembre 2010, p. 171.

[3] Ibidem.

[4] Epicuro, Epistème ed éthos in Epicuro, a cura di L. Giancola, Roma, Armando Editore, 1998, p. 111.

[5] Cfr. Bauman Z., L’arte della vita, Laterza, 2009, pp. 44-45.

[6] Si fa riferimento all’opera di Bauman Z., L’arte della vita, op. cit., pp. 14-16, dove la giovane Liberty racconta la sua esperienza all’interno del negozio Top Shop, dove la sua probabilità di sbagliare acquisto si riduce a zero grazie ai buyers presenti.

[7] Ivi, p. 34.

[8] Bauman Z., L’arte della vita, op. cit., p. 6.

[9] Bauman Z., L’arte della vita, op. cit., p. 13.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 70.

[12] Ivi, p. 64.

[13] D’Andrea F., Quel che è gioco nella socievolezza, 2010.

[14] Latouche S., “L’invenzione dell’economia”, Bollati Boringhieri editore, 2010, p. 221.

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