Cultura

1917

È difficile raccontare la guerra, specie se su grande schermo e a chi non l’ha vissuta da vicino. 

È proprio il termine “racconto” che sta alla base della regia di Samuel Alexander (“Sam”) Mendes per “1917”, lungometraggio uscito il 23 gennaio 2020 nelle sale italiane. 

Sono rimasta colpita sin da subito non solo dal tema forte, il penultimo anno -forse il più bestiale- di Prima guerra mondiale, ma anche dalla storia biografica che sta dietro alla macchina da presa. Come dichiarato proprio dal regista: “questo film nasce da un racconto di mio nonno che mi ha narrato quando avevo circa undici anni, è dal quel giorno che ci penso. La sua storia riguardava la consegna di un messaggio…”; è certamente un valore aggiunto a beneficio della resa, quello di aver la possibilità di integrare ricordi di famiglia al lavoro.

Il film racconta, nello spazio temporale di una giornata, la spedizione di due soldati inglesi (interpretati da George Mackay e Dean-Charles Chapman) poco più che ventenni. Il compito dei giovani è quello di recapitare il messaggio di ritirata alle armi alla seconda divisione, che sta per cadere in un’imboscata da parte dei Tedeschi. Nel caso in cui l’operazione non dovesse riuscire, più di 1600 uomini andrebbero persi, tra i quali il fratello di uno dei due ragazzi.

Gli attori protagonisti, sopraccitati, sono pressoché sconosciuti, ma non mancano anche nomi importanti: viene così instaurata una dicotomia sensazionale nel cast, che ha ragioni ben profonde, spiegate, ancora una volta dal regista: “La ragione per cui in questo film ci sono Colin Firth, Benedict Cumberbatch, Andrew Scott, Mark Strong e Richard Madden, prima di tutto è perché sono grandi attori, ma anche perché lo spettatore li conosce già, e ha un legame con loro, durano poco in scena e rimangono comunque impressi nella memoria, cosa fondamentale per imprimere la gravità di ogni passaggio all’interno della storia. Sono brevi e forti interpretazioni che vanno in contrasto con l’approccio fresco dei due protagonisti, avevo bisogno di due attori come George e Dean per questi personaggi, ti affezioni subito ai personaggi perché sei umano e non vuoi che muoiano, sono ragazzi semplici chiamati a fare qualcosa di incredibile. Volevo che nei primi cinque minuti si capissero le sfumature caratteriali senza troppi dialoghi, col farli chiacchierare un po’, camminare, tutto con naturalezza, comprendi lo scenario, scopri che uno è più riservato e l’altro più attaccato alla famiglia. Senza volerlo gli inizi a volere bene e poi ti ritrovi a combattere con loro. Ma se la scena e l’intento narrativo hanno avuto successo è solo perché sono due grandi attori”.

L’intento narrativo è quello che fa capo anche ad una particolare tecnica di ripresa, ossia quella di un unico piano sequenza, che fa in modo che la cinepresa non venga mai distolta dal protagonista, “costringendoci” quindi ad un unico campo visivo, senza stacchi di montaggio, che talvolta risulta forse troppo limitato. Eppure, è anche grazie a questa scelta che possiamo sentirci più vicini alla vita di trincea, ma anche alla vita dei soldati costretti e legati in situazioni ben poco favorevoli. 

Ciò che ho apprezzato maggiormente, però, è la guerra raccontata dagli occhi di un “anti-eroe”, poco coraggioso e a tratti pure svogliato. È proprio questa figura però che incarna la Prima guerra mondiale, fatta di anti-eroi che si sono visti costretti a diventati eroi, una guerra combattuta da uomini semplici, mandati a morire spesso per un fazzoletto di terra.  

 

Francesca Bortoluzzi

Classe 1994, nata a Belluno. Studentessa d'arte a Trento e grande appassionata di musica, soprattutto elettronica. Scrive da anni per vari media, nella perenne ricerca di nuovi stimoli e sensazioni.

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