Cultura

PERFIDA ALBIONE, MA LA REGINA ESAUDIRA’ UNA CERTA PETIZIONE?

              Perfida Albione è l’epiteto che è diventato oramai un luogo comune che da sempre rimane cucito addosso all’Inghilterra e al suo popolo. L’attributo non è certo un complimento, quindi incuriosito, mi è venuto il capriccio di indagare i motivi che giustificassero questa considerazione poco lusinghiera per gli inglesi. Se accendiamo un riflettore su questo popolo e analizziamo la sua storia, inevitabilmente ci troveremo di fronte ad elementi di valutazione sicuramente contraddittori, che se messi su una bilancia, molto probabilmente ci daranno una cognizione meno vaga di quanto l’epiteto in questione ci possa dare. Innanzitutto, credo sia utile capire il significato letterale della parola che origina dal latino perfidus, parola a sua volta derivata da fides che significa fede, fedeltà, lealtà – con il prefisso per indicante in questo caso deviazione; quindi il perfido è colui che rompe la fede o la parola data. 

               Contrariamente a quanto si pensi, non è stato Sua Eccellenza Cavaliere Benito Mussolini a coniare l’insulto, ma pare che debba attribuirsi la paternità a un teologo francese Jacques Bénigne Bossuet che la pronunciò durante un sermone, oppure al Marchese Agostino di Ximenes, un francese di origine spagnola, autore alla fine del Settecento di un verso che diceva  ”attacchiamo la perfida Albione nelle sue acque”.

              La storia comunque delinea un tratto che è composto non solo di specifici e particolari eventi, ma addirittura, possiamo dire che la loro peculiarità scaturisce dalla condizione psicologica del popolo inglese il cui isolamento va oltre la condizione geografica. I Romani hanno provato a far superare questo limite alla popolazione della Britannia conquistata e, anticipando la Londra dei nostri giorni, fondarono Londinium quale centro con spiccata attitudine commerciale. E’ possibile intuire e vedere la Londra romana, una città a forma di scacchiera, sapendo che il cardo (nord-sud) iniziava da un ponte e sotto la Lombard Street ne esistono ancora dei tratti; mentre oltre il decumano restano i tratti sotto la Cannon Street di una terza strada che corre proprio sull’orlo della terrazza quasi a picco sulla scarpata del fiume.

               Gli inglesi, per la capacità di monetizzare tutto, possono essere accostati agli ebrei e alcune volte, in questo distintivo esercizio e senza il minimo scrupolo, fanno di tutto per giustificare l’epiteto loro affibbiato. Del resto, lo stesso Winston Churchill in un discorso tenuto il 9 novembre 1914 alla Guildhall, all’epoca sede del municipio di Londra, affermò che la massima del popolo inglese è:” Business as usual” affari come sempre. E sempre con lucido cinismo, circa l’importanza rivestita dal fattore linguistico in una strategia di dominio politico, il 6 settembre 1943 Sir Winston Churchill, senza sottintesi, dichiarò il seguente pensiero: “Il potere di dominare la lingua di un popolo offre guadagni di gran lunga superiori che non togliergli province e territori o schiacciarlo con lo sfruttamento. Gli imperi del futuro sono quelli della mente”.

                 Con la stessa logica che dovrebbero sicuramente condividere, potremmo essere autorizzati a chiedere agli inglesi il pagamento di una sorta di copyright, ma preferisco chiamarlo diritto d’autore, quando per dire via adoperano la parola street il cui etimo poggia dritto su via lastricata; oppure, quando usando il termine ring vogliono riferirsi ad un quadrato che ha la stessa forma geometrica dello scranno, chiamato arringa, dalla quale il prete teneva la predica ai fedeli; potremmo continuare per tanti altri termini lessicali, ma fermiamoci qui. Se riconosciamo ai Romani la capacità unica nel dare valore esteso e assoluto alle cose, dobbiamo ammettere che la costruzione del Vallo di Adriano più che ad una funzione difensiva assolveva all’indicazione che oltre non valesse la pena di andare; da ciò si trarrebbe automaticamente un giudizio poco positivo sia sul territorio e sia su chi lo abitasse in quel tempo; la povertà culturale o delle conoscenze era così palese che si costruisce la leggenda di re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda sulla figura di un centurione romano. Tralasciamo cosa possiamo pensare oggi della monarchia inglese se lo facessimo declinando il nostro pensiero attraverso le gesta del principe Carlo; in passato i predecessori degli attuali monarchi non si sono risparmiati violenze e crudeltà per il potere sull’isola e leggendo la seguente terzina (vv. 121-123) tratta dal canto XIX del Paradiso apprendiamo: “Li si vedrà la superbia ch’asseta /che fa lo Scotto e l’Inghilese folle,/ sì che non soffrir dentro a sua meta”, dobbiamo riconoscere che Dante nell’esprimere questo giudizio (la superbia ch’asseta) non solo abbia visto lontano ma svela una capacità di analisi decisamente superiore a qualsiasi addetto a questo tipo di lavoro.

                Procedendo nell’analisi e nell’approfondimento delle peculiarità caratteriali di questo popolo, visto l’amore smisurato per i loro monarchi, alcune volte e per alcune imbarazzanti situazioni più che perfidia occorre parlare di ipocrisia quasi genetica; né ci si deve far travolgere dall’eclatanza di alcuni eventi, tipo i funerali della principessa Diana, per rimanere sostanzialmente statici nel giudizio o nell’opinione che via via ci faremo. In definitiva, la cronaca di questi giorni ci racconta come a due sudditi di sua Maestà la Regina, ovvero i genitori del piccolo Charlie, è stata di fatto sottratta la patria potestà, per cui non solo non è stata concessa la possibilità di tentare delle terapie fuori dall’Inghilterra, ma addirittura sulla sorte di questa sfortunatissima creatura l’Alta Corte di Giustizia decide come e quando il piccolo Charlie debba morire e, una volta deceduta quella piccola creatura, ha avuto da parte di tutte le Istituzioni le sentite condoglianze. … Tu chiamale se vuoi….. la canzone di Mogol-Battisti diceva emozioni, in questo caso non potremo che dire perfidie. Il tema meriterebbe  indubbiamente un approfondimento a parte, ma lo sconcerto innescato da questa, anche crudele, decisione mi sembrava appropriata all’argomento che stiamo sviluppando. 

                  Lo svolgimento di una seria argomentazione non può disconoscere i meriti che questa nazione indubbiamente ha, per cui, anche se sono prevalenti i motivi che inducono a ritenere perfida l’Inghilterra, comunque dobbiamo un chapeau bas (ma è meglio dire giù il cappello) alla Magna Charta Libertatum, giù il cappello a Ruggero Bacone, all’alchimista Isacc Newton, al matematico filosofo Bertrand Russel (di cui consiglio la lettura del libro Perché non sono cristiano), ancora giù il cappello alla rivoluzione industriale e molti sicuramente ne abbiamo dimenticati; ma qui ci dobbiamo fermare. Perché, pur essendo di una portata gigantesca questo elenco prestigioso di meriti che il popolo inglese ha guadagnato; non possiamo trascurare di esaminare altre situazioni che vanno ricondotte in via esclusiva solo e soltanto a questo popolo. 

                 Se per esempio parliamo di droga, tutti pensano alla Cosa Nostra americana o a quella Siciliana, alla ‘Ndrangheta, al cartello di Medellin, ma pochi sanno che tra la fine dell’ottocento e l’inizio del novecento il paese che deteneva il controllo mondiale dello spaccio delle droghe era proprio l’Inghilterra che cercava di trarre comunque profitto dal controllo di queste attività nonostante l’avviato declino del suo impero coloniale. Ma come ha fatto questo paese a creare quell’impero senza una evidente e pesante utilizzazione del proprio esercito? Nel dare la risposta a questo incalzante quesito scopriremo che gli elementi che andranno a sostanziare il nostro giudizio, molti sono riconducibili alla perfidia, all’ipocrisia e, pochi, all’ammirazione. 

                 Entriamo nel merito della questione che si chiama Massoneria. Questa istituzione affonda le sue radici nella notte dei tempi, diciamo che è sempre esistita e per il suo peculiare carattere improntato all’estrema riservatezza, nel senso che i suoi rituali e i suoi regolamenti venivano tramandati da adepto ad adepto; non ha mai avvertito il bisogno di codificare o legalizzare la propria esistenza. Fino al 1717 su tutti i territori del cosiddetto mondo occidentale, quindi in tutte le nazioni compresa l’Inghilterra, la massoneria ha sempre vissuto e convissuto con le varie vicissitudini che le specifiche società dell’epoca consentivano. Accade che il 24 giugno 1717, nel giorno per i massoni più sacro (festa di S. Giovanni effigiato sempre con un’aquila), quattro logge londinesi si congiunsero, costituendo la Gran Loggia Unita d’Inghilterra, Madre del Mondo, ne fu eletto gran maestro Anthony Sayer. 

                 Questa loggia con il tempo assunse una sempre maggiore importanza, tanto da diventare l’istituzione massonica centrale in grado di riconoscere o non riconoscere le obbedienze di questa o quella nazione. Quel giorno nacque la massoneria moderna, detta anche speculativa, poiché quella che era esistita sino allora era stata una massoneria operativa; chiamata così perché i massoni medievali costruivano edifici religiosi e militari, nonché le residenze di signori; mentre gli speculativi si occupano di problemi teorici e filosofici. Fu un certo James Anderson (Aberdeen 1679  Londra  28 maggio 1739) un religioso scozzese,  ministro di culto della chiesa presbiteriana scozzese, nonché  Maestro Venerabile di una loggia massonica, e Gran Sorvegliante nella Gran Loggia di Londra, a redigere le costituzioni dei liberi muratori, dette Costituzioni di Anderson. 

                   Con in mano i diritti d’autore dei rituali massonici, l’Inghilterra offrendo a tutti i notabili della società Indiana questo esclusivo ingresso esoterico in quel particolare mondo, di fatto, attraverso questi notabili, controllava la popolazione di quel vasto territorio. Accade però, che per la prima volta, i massoni, in barba ai predicati e poco applicati principi della Fratellanza Universale, dànno luogo tra di loro ad una guerra (quella d’Indipendenza Americana) non risparmiandosi violenze e crudeltà. 

                   I coloni che popolarono gli attuali Stati Uniti chiedevano alla madre patria di pagare tasse meno esose, ma siccome pecunia non olet, ci fu il respingimento di questa richiesta innescando tutti presupposti per dar luogo alla guerra. Ed ecco, quindi, che il massone George Washington – iniziato il 4 novembre 1752 nella Loggia “Fredericksburg” in Virginia, diventato Maestro il 4 agosto 1753, eletto poi nell’aprile del 1788 Maestro Venerabile della Loggia di Alexandria, in Virginia, nei pressi dell’attuale Washington DC, nonché Gran Maestro il 30 aprile 1789, carica che mantenne ed esercitò fino alla sua morte – aiutato da altri Fratelli come Gilbert du Motier, meglio noto come marchese de La Fayette fu costretto alla guerra dai Fratelli Inglesi. 

                  La storia o la cronaca non si ferma solo a questo tipo di evento diciamo intermassonico; esso ha avuto altri seguiti, come nel caso del golpe di stato cileno dell’11 settembre 1973 dove il legittimo presidente nonché massone Salvador Allende, scaricato da un altro massone presidente degli USA Gerald Ford, fu, in circostanze mai chiarite, fatto fuori dall’altro massone Augusto Pinochet.

                  Ma noi chiediamo alla Regina d’Inghilterra di esaudire una petizione su che cosa? Al quesito risponderò alla fine di questa dissertazione; per il momento focalizziamo la nostra attenzione su uno sconosciuto signore siciliano vissuto tra 1564 e il 1616, il quale essendo figlio di genitori calvinisti nella Sicilia all’epoca sotto la dominazione spagnola fu costretto – dopo aver studiato in gioventù i testi classici, la scienza della navigazione, il latino, la storia e il greco, – ad errare per l’Italia quindi eccolo a Padova, a Milano, a Verona, a Venezia nonché frequentatore di Giordano Bruno, probabilmente, allievo di   Galileo Galilei; insomma, una persona poliedrica assetato di sapere che insieme ai genitori: Guglielmina Crollalanza e  Giovanni Florio fugge dalla natia Messina perché il padre era condannato al rogo dal Sant’Uffizio per aver pubblicato le sue accuse alla Chiesa Cattolica. Su questo signore di nome Michelangelo Florio, che di lì a poco si trasferirà in Inghilterra insieme al padre Giovanni esistono documenti come i registri del circolo degli attori di Shaftsbury dove appaiono entrambi i nomi, ma non quello di William Shakespeare nonostante fonti storiche importanti ci riferiscano che il Bardo ne fosse socio e frequentatore. Ebbene sì, stiamo parlando di Guglielmo Crollalanza alias William Shakespeare.

                    I primi dubbi sulla vera identità di William Shakespeare vennero colti proprio in Italia, nei primi anni venti, quando venne ritrovato un volume di proverbi: I Secondi Frutti, scritto nel XVI secolo da uno scrittore calvinista del Nord Italia, tale Michelangelo Florio; molti di questi detti erano utilizzati da William Shakespeare ne l’Amleto. Ma William Shakespeare era veramente inglese? Oppure, era originario di Messina, vissuto per qualche tempo tra il Veneto, la Lombardia e alcuni Paesi europei, fino ad emigrare forzatamente a Stratford-on-Avon, il borgo che, secondo la storia, dette i natali all’autore di Romeo e Giulietta.

                     A confermare l’italianità di Shakespeare è stata una ricerca dell’Università di Southampton condotta dal Prof. John Richmond, esperto in storia della letteratura e della filosofia contemporanea; “La mancanza di notizie biografiche su Shakespeare è stata oggetto di dibattito fin dal XVIII secolo”, ha affermato il professore, “ma oggi possiamo mettere la parola fine alla vicenda. Le opere di Shakespeare vanno riscritte poiché il grande drammaturgo non è nato a Stratford-upon-Avon il 23 aprile 1564, ma a Messina”. Shakespeare si chiamava in realtà Michelangelo Florio e il cognome da parte materna faceva Crollalanza. E proprio la traduzione in lingua inglese del nome e del cognome della madre (ovvero l’unione di shake cioè scrollare, agitare e speare cioè lancia) divenne il suo nuovo nome e cognome quando si trasferì in Inghilterra per evitare l’Inquisizione.

                      Un forte indizio sulla vera identità lo troviamo nella sua prima vera commedia: “Much adoo about nothing” ovvero Molto rumore per nulla, che, guarda caso, si svolge proprio a Messina. Ma, poniamoci una domanda: in che modo il figlio di un guantaio, come la storia, tutta di matrice inglese, ci vuol fare credere, potesse possedere l’immensa cultura che Shakespeare dimostrò nelle materie classiche? Come poteva, un poeta inglese, e per di più a quei tempi, descrivere fedelmente luoghi, paesaggi e persone italiani, così come li ritroviamo in ben 15 delle 37 opere del sommo William?

                     Perché la sua biblioteca non è mai stata messa a disposizione dei biografi? In quella biblioteca esistono i documenti che provano che Michelangelo Florio era figlio di Giovanni Florio e Guglielma Crollalanza, nato a Messina nel 1564. Michelangelo abitò nel palazzo di Otello, un nobile veneziano che accecato dalla gelosia, aveva ucciso anni prima la moglie Desdemona. Dopo aver frequentato il frate domenicano Giordano Bruno, s’innamorò a Milano di una contessina: Giulietta, che venne rapita dal governatore spagnolo il quale accusò del sequestro il giovane Florio perché era un convinto calvinista.

                     Giulietta si suicida e fu allora che Michelangelo fuggì in Inghilterra, assumendo il nome e il cognome della madre: Guglielma Crollalanza che diventerà William Shakespeare. Supera le difficoltà linguistiche facendo tradurre le sue prime opere e le mette in scena al teatro in legno “The Globe”; poi quando sposa la moglie inglese, questa gli traduce i versi più famosi.

                     D’altronde, anche per i biografi di allora, l’autore di Romeo e Giulietta anche se parlava l’inglese abbastanza fluentemente mostrava di avere una cadenza decisamente straniera, mediterranea. Come mai nessuno, in Inghilterra, abbia mai avuto il coraggio di tirare fuori la sua biblioteca lasciata in eredità?!?! Salterebbe fuori la sua vera identità. Rimane un dato significativo, i responsabili degli archivi shakespeariani (ovvero direttamente il monarca pro-tempore) hanno sempre impedito l’accesso a chiunque ne abbia fatto richiesta ufficiale?!?!

                      Il prestigioso, nonché autorevole quotidiano londinese The Times, occupandosi della disputa arrivò ad ammettere, seppur in via ipotetica, che se è evidente che William Shakespeare è nato in Italia “Ma ha scritto in inglese”, confermando il possesso di quel velo di ipocrisia condita da tanta perfidia. Possiamo immaginare che gli archivi di William Shakespeare non contengono formule o progetti di ordigni letali o cose mostruose che non sono utili svelare; e allora, con un quantitativo di firme magari notevole, lanciamo questa petizione alla Regina chiedendole di farci consultare quell’archivio promettendole una sola cosa: sarà la pubblica opinione a farsi un convincimento su tutta questa storia e su tutta la storia di questi inglesi.

 

Domenico Pavone 31/07/2017

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