Cultura

Luis Sepúlveda ci ha lasciato.

Muore a 70 anni lo scrittore e attivista politico cileno strappato al futuro dal covid 19 siamo tutti orfani delle sue parole per questo lo ricordiamo così.

Le rose di Atacama


“Eccole. Sono le rose del deserto, le rose di Atacama. Le piante sono sempre lì, sotto la terra salata. Le hanno viste gli antichi indios atacama, e poi gli inca, i conquistatori spagnoli, i soldati della guerra del Pacifico, gli operai del salnitro. Sono sempre lì e fioriscono una volta all’anno.”

Chi sono gli eroi? Chi gli uomini straordinari che i testi scolastici ricordano? Ampie monografie ne parlano, tutti li ammirano e li erigono a modelli. Luis Sepúlveda ci racconta invece la storia di altri uomini: nomi sconosciuti, figure marginali e quasi sempre perdenti, ma con una vita illuminata (o straziata) da un gesto di coraggio straordinario, dalla coerenza e dall’orgoglio con cui hanno affrontato, cercando di opporsi al potere, l’arbitrio e l’ingiustizia. Queste figure vivono e hanno vissuto in varie parti del mondo, luoghi geograficamente lontani (che l’autore ha attraversato nel suo girovagare da esule), ma espressione della violenza da una parte, e del coraggio dall’altra.
Il titolo italiano dato a questa raccolta di storie è anche quello di un capitolo: le rose che arrossano la magica desolazione salmastra del deserto di Atacama sbocciano per un solo giorno, ma la loro bellezza è tale da renderle estremamente preziose, da spingere gli uomini ad attenderne per giorni la fioritura. Nello stesso modo le vite degli uomini e delle donne di cui Sepúlveda parla hanno illuminato per un momento il mondo con la luce delle loro azioni, ma la loro fiaccola non sempre è stata raccolta da altri.
Ci si può sentire fratelli dell’uomo che vive in perfetta armonia con la natura nella selva amazzonica, capace di dividere quel poco che ha con il primo viandante. Con il giovane rifugiato politico che, fuggito dal suo paese, cerca di costruire insieme ad alcuni amici un modello di vita collettiva alternativa, nell’inospitale Patagonia, e che osa sfidare il liberismo imperante (figlio delle dittature cilene e argentine) che sta distruggendo le secolari foreste patagoniche per inviare in Giappone il legno ridotto a segatura. Dall’azione di quel ragazzo, Lucas, è nato il “Progetto Lemu” a difesa della “splendida linea verde accanto alla cordigliera delle Ande australi”: forse nessuno ricorderà quel nome, ma l’intera umanità gli deve molto.
E chi conosce il professor Gálvez fuggito ad Amburgo per salvarsi da Pinochet, tenendosi nel cuore l’amore per quella lingua, lo spagnolo, insegnata a generazioni di bambini? E dopo anni, ancora lontano dal Cile e ormai vicino alla morte, parla del sogno di una notte: stava insegnando ai bambini i verbi regolari e al suo risveglio si era trovato le dita “tutte sporche di gesso”.
Fratello è anche Vidal, un sindacalista dell’Ecuador, che tiene un’immagine sempre con sé, la fotografia di Greta Garbo, vera reliquia laica, pestato a sangue dai latifondisti per la sua tenace azione contro lo sfruttamento dei contadini. A lui ben può riferirsi la frase di Brecht: “Ci sono uomini che lottano tutta la vita: è di loro che non si può fare a meno”.
Ma Sepúlveda ricorda anche i tanti che, nella bellissima Toscana, rischiano ogni giorno la vita (e in tanti muoiono), per pochi soldi, senza nessuna forma di sicurezza, facendo i cavatori: “A me non importa decisamente nulla degli eroi vittoriosi. A me non importa decisamente nulla degli eroi di marmo. Ma mi importa dei cavatori, appesi ad altezze da incubo, schiacciati dal peso, a volte infame, dell’arte”.
Ed erano fratelli gli uomini e le donne che, diversi per etnia, popolavano in pace il piccolo paradiso di Lussinpiccolo, “una macchia ocra nel mare Adriatico, davanti alla costa di un paese che un tempo si chiamava Jugoslavia”. Erano sloveni, croati, serbi, bosniaci e molti di loro non sono riusciti neppure a capire come sia potuto succedere quello che è poi successo, non hanno capito l’odio etnico, così abilmente manipolato da “imbroglioni e falsi profeti” che ha provocato tanta morte e distruzione.
Tra le ultime, emblematiche figure citate nel libro, è giusto ricordare Jan Palach, torcia umana in difesa della libertà, solitario testimone del coraggio che si oppone all’arbitrio, e una sua poesia, sconosciuta ai più:

Io oso perché
tu osi perché
lui osa perché
noi osiamo perché
voi osate perché
loro non osano.

Storie marginali

 

Un paio di anni fa visitai il campo di concentramento di Bergen Belsen, in Germania. In mezzo a un silenzio atroce, feci il giro delle fosse comuni in cui giacciono migliaia di vittime dell’orrore nazista, chiedendomi dove fossero i resti di una certa bambina che ci ha lasciato la più commovente testimonianza di quella barbarie e la certezza che la parola scritta è il più grande e invulnerabile dei rifugi, perché le sue pietre sono unite dalla malta della memoria. Cercai ovunque, ma invano: non trovai alcun indizio che mi portasse ad Anna Frank.
Alla morte fisica, i boia avevano aggiunto la seconda morte dell’oblio e dell’anonimato. “Un morto è uno scandalo, mille morti sono una statistica” affermava Goebbels, e questo è quanto hanno sempre detto e continuano a ripetere i militari cileni e argentini e i loro complici mascherati da democratici. Questo è quanto hanno detto e continuano a ripetere i Milo_evi_, i Mladi_ e i loro complici mascherati da negoziatori di pace. Questo è quanto ci viene continuamente sputato in faccia dai massacratori dell’Algeria, così vicina all’Europa.
Bergen Belsen non è certo un posto da passeggiate, perché il peso dell’infamia opprime, e all’angoscia del “cosa posso fare io perché tutto questo non si ripeta mai più?” subentra il desiderio di conoscere e narrare la storia di ciascuna delle vittime, di aggrapparsi alla parola come unico scongiuro contro l’oblio, di dare nome e voce alle vicende gloriose o insignificanti dei nostri genitori, dei nostri amori, dei nostri figli, dei nostri vicini e dei nostri amici, di trasformare la vita in una vera e propria forma di resistenza contro l’oblio, perché, come ha detto il poeta Guimarâes Rosa, narrare è resistere.
In un angolo del campo di concentramento, a un passo da dove si innalzavano gli infami forni crematori, nella ruvida superficie di una pietra, qualcuno, chi?, aveva inciso con l’aiuto di un coltello forse, o di un chiodo, la più drammatica delle proteste: “Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia”.
Ho visto le opere di molti pittori, ma scusate, a parte Il grido di Munch, ancora non conosco il brivido d’emozione che può provocare un dipinto. Ho anche osservato innumerevoli sculture e solo in quelle di Agustín Ibarrola ho trovato passione e tenerezza espresse in un linguaggio che le parole non raggiungeranno mai. Credo di aver letto un migliaio di libri, ma mai un testo che mi sia parso così duro, così enigmatico, così bello e al tempo stesso così straziante come quello inciso nella pietra.
“Io sono stato qui e nessuno racconterà la mia storia” aveva scritto una donna, forse, o un uomo. E quando? Pensava alla sua saga personale, unica e irripetibile, o l’aveva fatto in nome di tutti coloro che non vengono mai citati nei notiziari, che non hanno biografie, ma solo un labile passaggio per le strade della vita?
Non so quanto tempo rimasi davanti a quella pietra, ma man mano che scendeva la sera vidi che altre mani passavano sull’iscrizione per impedire che fosse ricoperta dalla polvere dell’oblio. Erano quelle di un tedesco, Fritz Niemand, Federico Nessuno, che sopravvissuto all’orrore nazista gira cieco la Germania cercando le voci dei carnefici. Di un argentino, Lucas, che stufo di discorsi ipocriti decise di salvare i boschi della Patagonia andina con il solo aiuto delle sue mani. Di un cileno, il professor Gálvez, che in un esilio mai capito sognava la sua vecchia aula scolastica e si svegliava con le dita sporche di gesso. Di un ecuadoriano, Vidal, che sopportava i pestaggi dei latifondisti raccomandandosi a Greta Garbo. Di un italiano, Giuseppe, che era giunto in Cile per errore, aveva trovato i suoi migliori amici per errore, era stato felice a causa di un altro enorme errore e rivendicava il diritto di sbagliarsi. Di un bengalese, Simpah, che ama le navi e le porta alla demolizione ricordando loro le bellezze dei mari che hanno solcato. E del mio amico Fredy Taberna, che affrontò i suoi assassini cantando…
Tutti loro, e molti altri, erano lì a togliere la polvere dalle parole incise nella pietra e io capii che dovevo raccontare le loro storie.

Fonte: wuz.it

Sergio Giangregorio

Direttore Responsabile magazine online Convincere. Laureato in scienze politiche e relazioni internazionali. Perfezionato presso L’Università degli Studi Roma 3 in “Modelli Speculativi e ricerche educative nell’interazione multimediale di primo e secondo livello“ Docente universitario a contratto in materie investigative con specifico expertise sulla sicurezza in aree urbane, sulle tecniche di intelligence e di peacekeeping. Esperto di comunicazione in situazioni estreme. Giornalista investigativo ed analista di intelligence, come Ghost writer ha elaborato numerosi studi strategici coprendo tutti i teatri di guerra dai balcani, al vicino oriente seguendo i conflitti in Afganistan, Iraq e nel nord-Africa. Presidente del Centro Europeo Orientamento e Studi – Ente morale di diritto privato per la difesa dei diritti civili. Direttore Scientifico dell'Istituto di Ricerca sui rischi geopolitici Triage Duepuntozero.

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