LE FOIBE: IL DOLORE DI UNA MEMORIA DIMENTICATA

Il 10 febbraio, in Italia, si celebra il Giorno del Ricordo, una data che dovrebbe essere scolpita nella coscienza collettiva del Paese, ma che per decenni è rimasta relegata al silenzio. È la giornata dedicata alla memoria delle vittime delle foibe e dell’esodo giuliano-dalmata, una tragedia umana che ha visto migliaia di italiani trucidati e centinaia di migliaia costretti a fuggire dalla propria terra, strappati dalle loro radici e condannati a un destino di dolore, solitudine e oblio.
Le foibe non sono solo un luogo fisico: sono un simbolo di una ferocia inimmaginabile, di vendette consumate nell’oscurità, di corpi gettati nell’abisso senza nome, senza sepoltura, senza pace. Per troppo tempo questa pagina di storia è stata taciuta, negata, politicizzata, relegata ai margini della memoria nazionale. Ma il dolore non si cancella con il silenzio. Il dolore sopravvive, si tramanda nelle lacrime degli esuli, nei racconti soffocati, nelle ferite che non si rimarginano.
Oggi, mentre la società avanza nel tempo e le voci dei testimoni si affievoliscono, è nostro dovere ricordare. Ricordare per restituire dignità a chi è stato strappato alla vita con inaudita ferocia. Ricordare per dare giustizia a chi ha perso tutto, persino il diritto al proprio dolore.
Ricordare perché senza memoria non c’è futuro.
Per comprendere il dramma delle foibe, bisogna risalire alla storia travagliata della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia, terre di confine in cui italiani, sloveni e croati convivevano da secoli. Dopo la Prima Guerra Mondiale, questi territori furono annessi all’Italia, ma le politiche fasciste di snazionalizzazione alimentarono tensioni profonde con la popolazione slava, che subì discriminazioni e repressioni.
Durante la Seconda Guerra Mondiale, con l’occupazione nazifascista della Jugoslavia nel 1941, la violenza esplose in una spirale di atrocità e vendette. I partigiani jugoslavi di Tito, animati dall’ideologia comunista e da un feroce desiderio di rivalsa, iniziarono una sistematica repressione contro gli italiani considerati “nemici del popolo”. Fu in questo clima di odio e caos che ebbe inizio la tragedia delle foibe.
Le foibe sono cavità carsiche naturali tipiche dell’Istria e del Carso, profonde gole di roccia in cui i corpi delle vittime venivano gettati senza pietà. Le uccisioni avvennero in due ondate principali: nel 1943, dopo l’armistizio dell’8 settembre, quando il potere collassò e le milizie titine iniziarono a eliminare indiscriminatamente italiani, soldati e civili; nel 1945, alla fine della guerra, quando le forze di Tito occuparono Trieste, Gorizia, Pola e Fiume, e la pulizia etnica raggiunse il suo apice.
Le modalità delle esecuzioni erano disumane. Le vittime venivano spesso legate con il filo di ferro ai polsi, in lunghe catene umane. Poi si sparava ai primi della fila, che precipitavano nella foiba trascinando con sé gli altri, ancora vivi. Altri venivano torturati, seviziati, gettati nell’oscurità dopo giorni di prigionia.
I numeri di questa strage sono ancora oggi incerti, nascosti tra il silenzio della politica e la difficoltà di recuperare i corpi: si stima che tra le 10.000 e le 15.000 persone siano state inghiottite dall’orrore delle foibe, mentre circa 350.000 italiani furono costretti all’esodo, abbandonando per sempre le loro case, le loro città, la loro identità.
Se il massacro delle foibe fu una tragedia di morte, l’esodo giuliano-dalmata fu una tragedia di sopravvivenza. Centinaia di migliaia di italiani lasciarono Istria, Fiume e Dalmazia per sfuggire alle persecuzioni jugoslave. Partirono con poche valigie, lasciando dietro di sé tutto: case, ricordi, affetti, persino le tombe dei loro cari.
Molti trovarono rifugio nei campi profughi italiani, spesso in condizioni di estrema povertà e disagio. Altri vennero accolti con ostilità, trattati come stranieri nella loro stessa patria, accusati di essere fascisti solo perché italiani. L’indifferenza e il pregiudizio resero ancora più straziante il loro dolore.
Le storie degli esuli sono storie di vite spezzate: bambini che non hanno più rivisto la loro casa, anziani che sono morti con il desiderio di tornare nella loro terra natia, famiglie divise per sempre. Sono storie di chi è stato costretto a dimenticare per sopravvivere, ma che ha portato nel cuore una nostalgia incancellabile.
Per decenni, la tragedia delle foibe è stata avvolta da un silenzio pesante, quasi colpevole. L’Italia del dopoguerra, impegnata a ricostruire la propria identità, ha preferito non guardare a questa pagina scomoda. La Guerra Fredda ha contribuito a insabbiare la verità: la Jugoslavia di Tito era un alleato strategico contro l’Unione Sovietica, e denunciare i suoi crimini avrebbe avuto conseguenze politiche.
Così, le vittime delle foibe sono rimaste senza giustizia, senza riconoscimento, senza voce. Gli esuli sono stati costretti a vivere con il peso di una storia negata.
Solo nel 2004, con l’istituzione del Giorno del Ricordo, l’Italia ha iniziato a fare i conti con questa tragedia. Ma ancora oggi, troppe persone ignorano la portata di ciò che accadde. Ancora oggi, c’è chi minimizza, chi giustifica, chi cerca di riscrivere la storia.
Ricordare le foibe non è un atto politico. È un dovere morale. È un tributo a chi è stato strappato alla vita con una violenza disumana. È un atto di giustizia verso chi ha perso tutto, senza mai ricevere una parola di conforto, senza mai ottenere un riconoscimento.
Il Giorno del Ricordo non è solo una commemorazione. È un monito per il futuro. Le foibe ci insegnano che l’odio, la vendetta, l’indifferenza possono portare a tragedie inimmaginabili. Ci ricordano che la storia non è fatta solo di vincitori e vinti, ma di esseri umani, di vite spezzate, di sofferenze che non devono essere dimenticate.
Oggi, mentre le generazioni passano e i testimoni diretti si fanno sempre più rari, il nostro compito è ancora più grande. Dobbiamo essere noi a tenere viva la memoria. Dobbiamo raccontare, spiegare, insegnare. Dobbiamo fare in modo che le voci di chi ha sofferto non si spengano nel silenzio.
Perché chi dimentica il passato è condannato a riviverlo. E noi non possiamo permettere che questo accada.