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RACCONTARE LA PACE IN UN PAESE DI GUERRA

con gli occhi del nemicoSi può parlare di pace in un paese che ogni mattina da sessanta anni si sveglia pensando alla guerra, ormai endemica e terribile abitudine? Certo che si può, anzi si deve.

Grossman, che in questa vicenda dolorosa ha perso un figlio alla fine dell’estate scorsa sul fronte libanese, e mai è stato sfiorato da un sentimento di odio. E la ragione è presto spiegata: egli è capace di guardare “con gli occhi del nemico”.
Scrivere, raccontare, creare storie e personaggi in grado di far entrare i lettori nella pelle di un altro, farli pensare con la testa di un altro, far loro guardare la realtà con gli occhi di un altro. Anche se l’altro è un nemico. Sì, perché quando avremo conosciuto l’altro dall’interno, da quel momento non possiamo più essere completamente indifferenti a lui. Non potremo comportarci come se non esistesse, o come se non fosse una persona. Dovremo quindi tenere conto delle sue ragioni, della sua storia, delle sue rivendicazioni. E forse capiremo di più i suoi e i nostri errori.
Scrivere diventa un mezzo per rendere il mondo meno estraneo e nemico, il dolore meno paralizzante e insopportabile, il linguaggio meno povero e fossilizzato dagli stereotipi dell’odio e della paura. La guerra è male, lo sappiamo; ma è grave che il ricorso alla guerra sia così facile e immediato. Perché? Perché, dice Grossman, nessuno comincia veramente una guerra, le guerre si continuano, sono senza soluzione di continuità. La pace, invece, quella sì, è qualcosa che si deve cominciare.

 

(tratto da “Con gli occhi del nemico” di David Grossman)

… Io scrivo. La sciagura che mi è capitata, la morte di mio figlio Uri durante la seconda guerra del Libano, permea ogni momento della mia esistenza. La forza è in effetti smisurata, enorme. A tratti possiede qualità paralizzanti. Eppure l’atto stesso di scrivere crea per me, ora, una specie di “luogo”. Uno spazio emotivo che non avevo mai conosciuto prima, in cui la morte non è solo la contrapposizione totale, categorica, della vita.
Gli scrittori lo sanno: quando scriviamo percepiamo il mondo in movimento, elastico, pieno di possibilità. Di certo non congelato. Ovunque vi sia qualcosa di umano, non c’è immobilità né paralisi. E, sostanzialmente, non esiste nemmeno uno status quo (anche se, a volte, pensiamo per sbaglio che esista; e c’è chi farebbe qualunque cosa perché lo pensassimo).
Io scrivo. Il mondo non mi si chiude addosso, non diventa più angusto. Mi si apre davanti, verso un futuro, verso altre possibilità. Io immagino. L’atto stesso di immaginare mi ridà vita. Non sono pietrificato, paralizzato dinanzi alla follia. Creo personaggi. Talora ho l’impressione di estrarli dal ghiaccio in cui li ha imprigionati la realtà. Ma forse, più di tutto, sto estraendo me stesso da quel ghiaccio.
Io scrivo. Percepisco le innumerevoli opportunità presenti in ogni situazione umana e la possibilità che ho di scegliere fra di esse, la dolcezza della libertà che pensavo di avere ormai perso. Mi  compiaccio della ricchezza del linguaggio vero, personale, intimo, al di fuori dei clichè. Riprovo il piacere di respirare nel modo giusto, totale, quando esco fuori dalla claustrofobia degli slogan, dei luoghi comuni. Improvvisamente comincio a respirare a pieni polmoni…


Io scrivo. Sento la sensibilità e l’intimità che ho con la lingua, con i suoi diversi substrati, con l’erotismo, con l’umorismo e con l’anima che essa possiede, mi riportano a quello che ero, a me stesso, prima che questo “io” fosse ridotto al silenzio dal conflitto, dal governo, dall’esercito, dalla disperazione e dalla tragedia.
Io scrivo. Mi libero da una delle vocazioni ambigue e caratteristiche dello stato di guerra in cui vivo, quella di essere un nemico, solo ed esclusivamente un nemico …


Io scrivo. Ad un tratto non sono più condannato ad una dicotomia totale, fasulla e soffocante: la scelta brutale fra “essere vittima o aggressore” senza che mi sia concessa una terza disponibilità, più umana. Quando scrivo riesco ad essere un uomo nel senso pieno del termine, un uomo che si sposta con naturalezza tra le varie parti di cui è composto; che ha momenti in cui si sente vicino alla sofferenza e alle ragioni dei suoi nemici senza rinunciare minimamente alla propria identità.
A volte, mentre scrivo, ricordo ciò che abbiamo provato noi israeliani, in un raro momento, quando a Tel Aviv atterrò l’aereo del presidente egiziano Anwar Sadat, dopo decine di anni di guerra tra i due popoli. Allora, inaspettatamente, scoprimmo quanto fosse pesante il fardello che ci eravamo portati sulle spalle per tutta la vita. Il fardello delle ostilità, della paura, del sospetto, dell’essere costretti a stare perennemente all’erta, dell’essere nemico, sempre.
E che felicità fu levarsi di dosso per un stante le pesanti corazze del sospetto, dell’odio, degli stereotipi. Che felicità quasi spaventosa fu ritrovarsi spogliati, quasi puri, e vedere d’un tratto, davanti a noi, spuntare, dall’ottica ristretta e piatta con la quale ci eravamo osservati per anni, il volto dell’essere umano …
E scrivo della vita del mio paese, Israele. Un paese tormentato, intossicato da troppa storia, da sentimenti esasperati che non possono essere umanamente contenuti, da troppi eventi e tragedie, da ansie parossistiche, da una lucidità paralizzante, da un eccesso di memorie, da speranze deluse, dalle circostanze di un destino unico nel suo genere tra tutti i popoli del mondo, da un’esistenza che talvolta appare mitica, al punto che sembra che qualcosa sia andato storto nei suoi rapporti con la vita e con la possibilità che noi, israeliani, potremo un giorno condurre un’esistenza regolare, normale, come un popolo tra gli altri popoli, uno Stato tra gli altri Stati…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

(immagini tratte da www.booksblog.it e www.polemos.it)

 

 

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