Criminologia

“Pensavo fosse amore, invece … è odio”

Si parla spesso del fenomeno dello stalking, delle violenze intrafamiliari e di genere e delle drammatiche conseguenze di alcuni casi che erano stati sottovalutati dalle vittime, dai famigliari ma anche, e fatto ancor più grave, dalle Forze dell’Ordine o dalla magistratura.

Eppure ancora oggi è molto diffusa la scarsa considerazione dell’alto potenziale offensivo e destabilizzante, delle dinamiche messe in atto dagli autori di quel tipo di reati.

Capita purtroppo con sconfortante ripetitività, di incontrare donne che hanno cercato supporto, comprensione e tutela nelle istituzioni ma si sono invece imbattute in un muro di gomma che le ha spesso convinte della necessità di rivedere le loro intenzioni, rivalutare l’importanza della loro relazione coniugale e ridimensionare il significato dei gesti violenti compiuti dal coniuge. Ciò, sia ben chiaro, non avviene per complicità ideologica o relazionale con gli autori e con i fatti, piuttosto per una grave mancanza di competenze proprio nel campo delle relazioni umane e del ruolo dell’empatia e dell’assertività, di molti operatori delle Forze dell’Ordine, che vedono nella donna che si presenta a sporgere denuncia, un’ulteriore incombenza che si va ad aggiungere all’enorme mole di cartacce e di burocrazia da smaltire in breve tempo.

Nei recenti incontri che ho avuto con i servizi sociali di uno dei centri dell’interland romano, che ormai stanno diventando delle vere e proprie città, ho ricevuto richieste di aiuto proprio in tal senso: servizi pubblici che chiedono ad apparati dello Stato un orecchio ed un cuore.

È così, sotto forma di una gentile ed empatica provocazione attuata tramite un invito alla presentazione di un libro, che mi è stato posto il problema dell’accoglienza delle donne vittime di atti persecutori e/o di violenze.

Al convegno sulla presentazione del libro “Acida – Dramma in due atti”[1], mi è stato sommessamente chiesto di intervenire per far sentire anche la voce degli operatori delle Forze dell’Ordine in quel delicato ambito. La sensazione che ne ho tratto è che quella voce mancava e se ne sentiva la sua assenza, sia tra il personale operante che tra la gente.

Nel libro, la protagonista, ancor prima di essere definitivamente vilipesa nel suo ruolo e privata della dolce arma, la bellezza, che ogni donna ama ostentare e che noi uomini apprezziamo e portiamo nei nostri ricordi quotidiani, tende le mani all’agente di Polizia che sta ricevendo la sua denuncia di atti persecutori (da parte del compagno), in lacrime, sul punto di capitolare alla barbarie cui è quotidianamente sottoposta.

Il gesto di quelle mani ha un forte significato simbolico legato alla richiesta di aiuto e di sostegno che ogni cittadino quotidianamente e timidamente chiede alle istituzioni ma che, soprattutto in questo ambito, non sempre arriva con la dovuta tempestività ed incisività.

Ho imparato a conoscere e capire il senso di quelle mani, di quella richiesta d’aiuto spesso sbiadita dalla presenza di una scrivania che separa la vittima dall’Uff.le di p.g. o dal monitor di un computer che consente a mala pena di guardarsi in faccia, mentre “lei” piange e racconta episodi di vita intima, segreta, che non avrebbe mai voluto esternare e che non ha mai confidato a nessuno, come solo le donne sanno fare.

Provo un profondo dolore nella consapevolezza che spesso quell’enorme fatica non viene avvertita, quella violazione della propria sfera segreta, emozionale, relazionale, non venga poi premiata con un abbraccio simbolico, empatico come a dirle: “Noi ci siamo, siamo qui per te.”.

E’ dal momento in cui Acida è entrata nella mia vita che ho deciso di forzare la routine del mio lavoro e di dedicare parte del mio tempo a quelle donne, a quei bambini, a quelle famiglie che vivono la tragedia della distruzione di un illusorio idilliaco ménage familiare e della conseguente scoperta dell’assenza di quel guscio protettivo che il nucleo familiare dovrebbe garantire per sua natura.

Ritengo che questo tipo di reati vadano affrontati con un doppio approccio che deve caratterizzare due fasi dell’attività: quello criminalistico e quello criminologico. Come vedremo queste due fasi sono strettamente correlate e funzionali l’una all’altra.

Le competenze del primo tipo di approccio sono indispensabili per la ricostruzione della crimonodinamica e quindi per l’acquisizione delle fonti di prova; per la corretta valutazione del tipo di intervento da effettuare, della tempistica e anche del tipo di provvedimenti da richiedere all’Autorità Giudiziaria.

Il secondo approccio dovrebbe caratterizzare la formazione dell’operatore che riceve la notizia di reato ed esserne un completamento. La conoscenza delle tecniche di comunicazione è indispensabile perché si possa creare da subito una buona relazione tra vittima ed operatore e sia possibile, in tal modo, avere in tempi brevi un’idea del livello di gravità del caso che si sta analizzando. Tale positiva relazione consentirebbe una più efficace assunzione di informazioni sia dirette che indirette, da parte della vittima e/o di testimoni (parenti, amici etc.). Consentirebbe inoltre di poter approfondire l’analisi e la ricostruzione di momenti specifici del processo di sopraffazione e del tentativo di sottomissione, che acquisiscono un ruolo importantissimo nell’evidenziazione della psicodinamica e criminodinamica delle condotte.

Inoltre, con un approccio empatico ed analitico, si potrebbero facilmente individuare gli episodi di costruzione ad hoc di casi di stalking da parte di vittime fasulle il cui obiettivo è quello di ottenere una separazione con addebito delle colpe all’ex compagno/a o, ancora, inviando agli appositi servizi coloro che evidenzino profili paranoici, maniacali o più semplicemente disturbi d’ansia.

Mi è stato insegnato che, ogni volta che ci si imbatte in un problema, occorre innanzitutto capirne le cause per poterne individuare le soluzioni.  Così ho iniziato a riflettere sulle radici sociali che recludono la donna, ancor oggi, in una posizione sociale di subalternità e dipendenza, nella quale le viene inevitabilmente attribuito un ruolo marginale. Dall’idea di subalternità e dipendenza, si va inesorabilmente e lentamente alla deriva, verso una sistematica e progressiva accettazione di ogni condotta, non più concepita come lesiva di diritti (che sono progressivamente minimizzati fino all’azzeramento) e non più intollerabile o inconcepibile, poiché diretta verso soggetti ai quali non vengono riconosciuti un preciso ruolo sociale ed una chiara individualità. La donna passa così dall’essere elemento fondante e concretizzante di una relazione prima sociale e poi diadica, all’essere un mezzo per il raggiungimento di un appagamento individuale, divenuto patologicamente essenziale, da parte dell’uomo: ruolo sociale solo se è parte di una relazione diadica.

Da qui la recente illuminazione da parte di mia moglie che, nel pianificare l’attività dell’anno scolastico con i suoi meravigliosi, piccoli alunni della materna, ha puntato l’attenzione sul mondo delle fiabe (che accompagnano lo sviluppo psicologico, cognitivo ed emotivo dei bimbi) e, quindi, sui modelli di uomo e donna che vengono trasmessi ai bimbi proprio da quelle storie di vita immaginaria. In un chiaro intervento di prevenzione primaria, ha pensato di inserire nel programma le storie delle cosiddette “Anti Principesse[2]”: donne vere, che vivono le loro vite facendo leva sulle loro caratteristiche personali: i loro pregi e i loro difetti diventano risorse. Ne viene fuori un’idea di donna nuova, di femmina emancipata ed indipendente dalle figure maschili le quali non vengono rifiutate ma, insieme a quelle femminili, vivono un rapporto sinergico e complementare. Donne non più in attesa del principe azzurro che la salva, che dà loro sicurezza, ma elemento essenziale, con la loro femminile caratteristica diversità, della relazione tra uomo e donna.

Ma quale potrebbe essere la genesi di una tale deviazione nei ruoli e nel genere? Sicuramente in Italia esiste una diffusa idea che l’uso della violenza (non solo fisica) all’interno delle famiglie, sia un fatto accettabile se esercitato entro certi limiti. Se guardassimo un po’ indietro nel tempo, ci accorgeremmo che solo negli anni settanta è stato abrogato l’articolo del codice penale che consentiva l’uso della violenza all’interno delle mura domestiche, se vi si ricorreva per fini di correzione di moglie e figli. Ancora, il codice civile sanciva che per il nascituro di una donna incinta che restava vedova, poteva essere nominato tutore “…chiunque sia idoneo…”, relegando in tal modo il ruolo della donna a quello di uno strumento di mera procreazione, negandole di fatto ogni diritto, in quanto essere umano, di prendersi cura del proprio figlio, non riconoscendole neanche gli inevitabili legami affettivi che il miracolo della creazione instaura.

Sebbene, per fortuna, quegli articoli siano stati abrogati, sembra sia rimasto nella mente sociale, lo stereotipo della donna priva di diritti poiché non completamente capace di badare a sé stessa e di gestire autonomamente la propria vita. A ciò va aggiunto il preconcetto che ciò che avviene all’interno delle mura domestiche, non debba essere assolutamente valutato all’esterno: “Tra moglie e marito non mettere il dito” recita un proverbio. Il significato profondo di questa frase fa parte del bagaglio culturale di ognuno di noi (o quasi). Ecco perché la povera Sara Di Pietrantonio ha perso la vita[3]. Durante il suo sacrificio, gli automobilisti richiamati dalle sue richieste di aiuto, non si sono fermati. Nessuno ha ritenuto fosse il caso di intervenire, “quella è una cosa privata, sono fatti loro”, avranno pensato i passanti, inducendo il P.M. Maria Monteleone[4] a dire: “Rivolgiamo un caldo invito ad aiutare queste ragazze che hanno bisogno di aiuto. Se ci si imbatte in situazioni del genere, non siate indifferenti. Se ciò fosse accaduto, probabilmente Sara oggi non sarebbe morta” . Io aggiungo che se il passante avesse assistito ad una rapina, si sarebbe fermato, avrebbe chiamato la Polizia o i Carabinieri perché si sarebbe sentito convolto, in un modo o in un altro. Nel caso di Sara invece no: “La lite in famiglia, è un problema solo loro. Meglio non immischiarsi d’altronde lo sanno tutti … tra moglie e marito….”.

L’analisi appena fatta evidenzia i limiti, in fase repressiva, dell’aver istituito solo nelle grandi città, unità delle Forze di Polizia che trattano l’argomento delle violenze di genere, dello stalking e dei reati intrafamiliari. Sembra essere ancora una volta un errore di valutazione della reale dimensione del fenomeno. Se è vero che si tratti di un fenomeno sociale lo si può e lo si deve affrontare con la massima diffusione sul territorio di professionalità volte soprattutto alla prevenzione (ma anche alla repressione). È infatti tristemente evidente come i gravissimi episodi con esiti fatali, che hanno avuto una giusta massima diffusione mediatica, rappresentino solo una drammatica punta d’iceberg. Al di sotto di essa vi è una realtà molto più diffusa di quanto non si pensi, fatta di dinamiche che avvengono all’interno delle mura domestiche nei paesini di borgata e nelle periferie delle città, che sono il vero nocciolo del problema. Donne e famiglie che soffrono e che vivono quotidianamente drammatici conflitti endogeni; una sofferenza che spesso non riesce a trovar voce a causa della sordità della platea di professionisti e conoscenti, che preferisce negare a sé stessa l’evidenza del proprio fallimento.  

Sempre in tema di prevenzione, i fatti di cronaca e le infami aggressioni portate all’improvviso a donne di ogni età, fanno emergere la necessità dell’applicazione del braccialetto elettronico a coloro che vengano sottoposti alla misura cautelare degli arresti domiciliari (anche in sostituzione della detenzione in carcere[5]) per questi reati. La protezione di quelle donne, che hanno un’elevatissima esposizione vittimologica, deve essere un imperativo per le istituzioni.

Il percorso di nuova individuazione delle vittime di stalking o di maltrattamenti (portati avanti soprattutto grazie ad associazioni di professionisti e volontari come Differenza Donna a Roma), va necessariamente accompagnato da forme di tutela proprio nella fase più delicata, ossia il processo di separazione affettiva e consapevole dal partner. È in questa delicatissima fase che gli inevitabili processi di facilitazione espongono la vittima ad un elevatissimo rischio per la propria vita. L’accettare incontri riparatori o conclusivi della relazione con l’ex partner, ha spessissimo causato l’evento fatale che non sempre è premeditato dall’offender e pertanto acquisisce un più elevato grado di imprevedibilità. 



[1] Ed.2015, di Sabrina Masoni.

[2] Ad esempio “FRIDA KHALO” di Nadia Fink, Rapsodia Edizioni, 2015.

[3] Uccisa dal fidanzato che l’ha strangolata e data alle fiamme sulla pubblica via, a Roma.

[4] Magistrato che dirige il pool contro le violenze sessuali, di genere e pedofilia della Procura di Roma.

[5] Si veda al riguardo l’udienza delle Sezioni Unite della Cassazione Penale del 28 aprile 2016 in tema di esclusione di automatismi nei criteri di scelta delle  misure cautelari.

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